L'avvio di una nuova campagna di scavi alle Muracce, che ha preso inizio nei giorni scorsi, apre una riflessione più ampia sulla necessità di tutela del patrimonio storico e culturale del paese. E' giusto e doveroso tutelare e studiare il patrimonio archeologico. E gli scavi alle Muracce sono esattamente l'applicazione del principio della conservazione della memoria storica della nostra comunità locale. Non ci sono però solo i reperti dell'antichità classica romana da proteggere e valorizzare. C'è anche un altro campo di indagine che spesso sfugge anche agli addetti ai lavori, poichè non è ancora sufficientemente affermato e generalizzato il principio della tutela e valorizzazione di tutte le tracce archeologiche lasciate dai nostri progenitori. Proviamo ad affrontare un altro aspetto, quindi, della tutela del nostro patrimonio culturale: non solo quello di millenni fa, ma anche quello di secoli fa, non solo quello
delle Muracce romane, ma anche quello di Montenovo medievale e moderno. E come alle Muracce i reperti vengono attentamente studiati per scoprire, talvolta da semplici dettagli, le tracce di vicende storiche altrimenti perdute, anche a Montenovo l'attenta lettura di tracce recondite, spesso minime, apre scenari di conoscenza insperati. Pubblichiamo una foto che, a prima vista, sembrerebbe priva di interesse. E invece no. In pochi metri quadrati di muraglia sono racchiusi segni inequivocabili di un passato di secoli tanto diversi dai nostri. Basta fare attenzione per capire che quei mattoni antichi, quei pochi ferri arrugginiti piantati nel muro, quelle piastrelle numerate e quella targa stradale raccontano tutti una storia diversa, che si snoda nei secoli passati. Già la muratura ci dice molto, così difforme e irregolare com'è, soprattutto nella parte bassa: si tratta del muro perimetrale dell'attuale Palazzo Sabatucci, già Buti, prima ancora Antonini e anticamente il Cassero di Montenovo, risalente al Duecento, esterno alla antica cerchia muraria castellana e poi inglobato nella nuova ampliazione Quattrocentesca che subì Montenovo dopo il dominio dello Sforza. L'anello in ferro ci parla di un ben diverso modo di concepire i viaggi, dal Medioevo fino all'Ottocento, quando non c'erano ancora le automobili e si doveva camminare a piedi o, come solo i Signori potevano permettersi, andare a cavallo. E per parcheggiare il cavallo bisognava avere una stalla sotto casa, non un garage come si fa ora, mentre per fare una sosta bisognava legarne le briglie ad un apposito anello infisso al muro vicino al portone di casa, un anello come quello ritratto al centro della foto, probabilmente risalente al Seicento. E basta guardare a sinistra in alto per vedere che la piastrella con il numero civico è recente, risale agli anni '70 e retta da una gabbietta di plastica grigia, ma è applicata sopra una precedente piastrella in maiolica della numerazione relativa all'antica catastazione gregoriana di inizio Ottocento, mentre la targa marmorea di indicazione della via ci riporta alla metà del Novecento, subito dopo il passaggio del fronte e la Liberazione, quando all'amministrazione dell'epoca parve giusto sostituire la precedente denominazione monarchica Ottocentesca della via intitolata al Re d'Italia con il nome dell'ideologo comunista avversario di Casa Savoia e del Fascismo. Ma l'elemento, anzi gli elementi, più caratteristici e singolari racchiusi nell'immagine, e che hanno una sorprendente spiegazione, sono quei quattro ferri arrugginiti che, in verticale, partiscono l'immagine: due cardini anulari in alto, una staffa laterale al centro e uno sportellino a due fori in basso. Sarebbe difficile capirne la funzione se non ci aiutasse il diario manoscritto fra il 1815 e il 1840 dal concittadino Francesco Procaccini, che ci svela il segreto. Si tratta dei ferramenti del primo impianto di pubblica illuminazione con lampade a olio: prima 11 e poi 19 in tutto il paese, appese a un pastorale a bandiera fissato sui due cardini superiori, che dovevano essere accese tutte le sere, ad eccezione delle notti di luna piena, dall'incaricato addetto che, con una chiave in dotazione, apriva lo sportellino in basso, sfilava la catena prigioniera, la sganciava dalla staffa laterale, la faceva scorrere sulla girella appesa al pastorale a bandiera per far scendere il lampione appeso e finalmente, con lo stoppino, poteva accendere il fanale dell'illuminazione, per poi tirare di nuovo la catena e alzare il lampione, serrando e inchiavando la catena dentro lo sportellino, in modo che nessuno potesse manomettere l'impianto. Ecco svelato il segreto: è proprio il caso di dire che qui è passato il tempo.
Francesco Fiorani |