Pubblichiamo un contributo storico di un nostro lettore di Ancona: "Augusto Campana, L'elefante malatestiano e Ciriaco d'Ancona. Argomento e titolo sono identici a quelli della relazione presentata il 19 novembre 1965 al XVI Convegno di studi romagnoli (Cesena), mai pubblicata; ma nel corso degli anni si sono accresciuti i materiali e sono maturate valutazioni e convinzioni circa il loro impiego e la
loro provenienza. La figura dell'elefante, assunta con frequenza nel simbolismo dell'arte medievale, come componente dell'araldica malatestiana si trova testimoniata già alla fine del sec. XIV, ma compare con maggiore evidenza nell'arredo ornamentale della biblioteca di Cesena e, in maniera più vistosa, negli interventi malatestiani sulla preesistente chiesa di S. Francesco a Rimini, dove tuttavia, rispetto a Cesena, manca l'elemento caratterizzante costituito dal motto, del quale si dirà alla fine. Le prime rappresentazioni dell'animale a figura intera sono nel tempio malatestiano, propriamente nella cappella di S. Sigismondo, dedicata a Sigismondo Pandolfo, e delle Sibille o della Madonna dell'Acqua, nelle quali i telamoni reggenti i due pilastri dell'arco sono costituiti da due coppie di elefanti; e nella cappella degli Angeli dedicata a Isotta, dove il sarcofago della signora è sorretto da due elefanti. A Cesena, nel timpano che sormonta il portale d'ingresso della biblioteca, è scolpito un elefante ornato di una fascia includente il motto di cui si è fatto cenno; al di sopra del portale, in un marmo quadrato è di nuovo raffigurato l'elefante al centro di una corona e anche qui ricorre il motto in un cartiglio; inoltre si conserva il quarto inferiore destro di un grande pannello marmoreo decorativo (ne ignoriamo funzione e collocazione), dove della figura dell'elefante, inclusa in una cornice quadrilobata, rimangono solo le zampe posteriori. Infine, in uno dei chiostri che fiancheggiano l'edificio centrale del convento, nel capitello di una colonna è scolpita una figurina di elefante sormontata da una rosa, che probabilmente ha suggerito a una studiosa inglese il titolo per un libro di studi malatestiani (FRANCES FLEETWOOD, L'elefante e la rosa: storia della famiglia Malatesta, 2^ edizione riveduta, integrata e corretta, Imola, Grafiche Galeati, 1983; la 1^ edizione è del 1970). Già nel 1956, in un convegno alla Mendola, Campana aveva proposto di L'elefante malatestiano e Ciriaco d’Ancona identificare l'ispiratore di questo ricorrente motivo con Ciriaco d'Ancona, che con le corti malatestiane di Romagna ebbe sicuramente rapporti a partire almeno dal 1423 (da Rimini invia in quest'anno un'importante lettera al concittadino Pietro Bonarelli) e che, molto verisimilmente, presentò a Sigismondo un suo grande amico, il dotto Gemisto Pletone, del quale poi il signore di Rimini, al tempo in cui guerreggiava in Morea contro i Turchi per conto di Venezia (1464), fece disseppellire a Mistrà i resti mortali e li fece trasferire, appunto, nel tempio riminese, commissionando l'epitaffio latino a Roberto Valturio. Gli interventi di Ciriaco sono forse all' origine di un fatto straordinario nella cultura umanistica di quel periodo: le due grandi tabelle marmoree poste nelle prime arcate esterne, all'inizio delle fiancate del tempio, portano incisa una medesima iscrizione celebrativa redatta in greco e, particolare molto significativo, in caratteri di tipo arcaico. Questi caratteri sono molto simili a quelli usati da Ciriaco nel comporre le mostre alfabetiche inviate a vari amici o nel trascrivere epigrafi antiche (si confrontino, per esempio, con quelle di alcuni 'tituli' inclusi nella raccoltina autografa del Laur. LXXX 22, f. 324v, CIC 1694;f. 327r, 1.C. V/l 569), quindi è assai probabile che il loro modello risalga allo stesso Ciriaco; mentre per la redazione del testo si potrebbe pensare all'unico vero grecista presente alla corte di Sigismondo, Basinio Basini. Ma una ricerca condotta alcuni anni fa (CAMPANA, Ciriaco e Lorenzo Valla sull'iscrizione greca del tempio dei Dioscuri a Napoli, "Archeologia classica", XXV-XXVI, 1973-74, pp. 84-102, tavv. XX-XXI) ha fornito il pretesto per formulare l'ipotesi che anche dell'assetto testuale sia responsabile lo stesso Ciriaco. Infatti l'espressione (n.d.r. in greco), quale si legge nell'epigrafe riminese, riecheggia un'analoga dedica nell'iscrizione di Napoli (IC XIV 714), che nell'ambiente culturale romagnolo nessuno poteva conoscere così bene come Ciriaco. Questa ipotesi è stata accolta da MARILYN ARONBERG LAVIN, The Antique Source for the Tempio Malatestiano's Creek Inscriptions, "The Art Bullettin", LIX (1977), pp. 421-22 (trad. ital, in Piero della Francesca a Rimini. L'affresco nel Tempio Malatestiano, Bologna 1984, pp. 5-8). Si potrebbe obiettare che i due esemplari dell'iscrizione malatestiana sono stati eseguiti certamente dopo il 1452, ma niente vieta di pensare che la cosa fosse preordinata a Rimini già prima di quell'anno, nel quale pare certo che sia avvenuta la morte di Ciriaco. Questi infatti dovette sostare nella città romagnola al tempo in cui vi operavano Agostino di Duccio, Matteo de' Pasti, Roberto Valturio, al ritorno da un lungo soggiorno greco (1444-1447); del 26 giugno 1449 è una lettera inviata al Valturio da Ravenna dopo la sua partenza da Rimini (E. ]ACOBS, Cyriacus von Ancona und Mehemmed II, "Byz. Zeitschr.", 30, 1929-30, p. 198). Augusto Campana. Per tornare agli elefanti, ("immanes beluae" le chiamava Ciriaco, per es. MEHUS, p. 51), da disegni cinquecenteschi apprendiamo che altre figure di questo animale ornavano il tempio riminese, poi rimosse forse per una sorta di 'damnatio memoriae' della signoria malatestiana. Un fatto curioso, non ancora rilevato da alcuno, è che solo gli elefanti scolpiti nella cappella di S. Sigismondo presentano attributi sessuali femminili e sono privi di zanne. Queste mancano anche in quelli della cappella delle Sibille, ma in origine dovevano esserci (forse d'avorio), come è dimostrato dai relativi alloggiamenti, ora vuoti. In parecchi manoscritti si trovano disegni dell'elefante (a quelli riuniti in P.W. LEHMANN, Cyriacus 01 Ancona's Egyptian visit and its rejlections in Gentile Belliniand Hieronymus Bosch, Locust Valley, N.Y., 1977, figg. 30-35, si aggiunga HAMILTON 108, f. 98v) risalenti a originali ciriacani inviati a diversi corrispondenti e amici dopo la visita in Egitto del 1436. Di questi originali solo uno, a quanto pare, si è conservato ed è quello colorato in Mod. gr. 144, f.179v (LEHMANN, fig. 35) e dichiarato autografo da un amico di Ciriaco che lo possedette, Demetrio Raul Kabakes; il quale si riferisce anche ad un altro disegno, che doveva essere nel foglio successivo, ora mancante (come conferma un'ispezione apposita di Anna Pontani), e che certamente avrà rappresentato una giraffa come in altri manoscritti, dove i due animali sono raffigurati in pagine contigue. Un'altra prova della paternità del disegno è data dal sovrastante proverbio (n.d.r. in greco), indubbiamente scritto dallo stesso Ciriaco e, a quanto pare, assente dai repertori paremiografici. Il motto elephas Indus culices non timet inciso nei due bassorilievi della Biblioteca Malatestiana deriva dall'epistola 86 dello pseudo-Falaride, dove propriamente si legge (n.d.r. in greco), testo che compare, sia pure con un leggero errore di copia e con leggera inversione delle parole, nel ms. I 138 della Capitolare di Treviso e a cui è più fedele la traduzione che accompagna il disegno del citato ms. Hamilton 108 (hellephas Indus chulices non curat). Il corpus epistolare attribuito al tiranno di Agrigento ebbe, in età umanistica, circolazione vastissima per merito della versione latina fattane da Francesco Griffolini e dedicata, appunto, a Malatesta Novello, fondatore della biblioteca cesenate. Augusto Campana è mancato il7 aprile 1995 senza aver potuto ultimare la stesura della sua relazione per la stampa e il perfezionamento della documentazione bibliografica, Su richiesta dei familiari e della redazione, Filippo Di Benedetto ha amichevolmente accettato di redigere un riassunto del testo presentato in forma estemporanea a illustrazione di numerose diapositive e registrato su nastro; e ha cercato di identificare gli articoli e i manoscritti di volta in volta citati in maniera sommaria. |