Prima che giunga il fatidico anniversario del 3 agosto (del 390 a.C., cioè proprio 2400 anni fa rispetto al 2011, visto che non esiste nella cronologia storica l’anno zero) i tardi discendenti dei Galli Senoni della valle del Misa si prendono finalmente la rivincita sulle “oche capitoline”. Se queste non avessero starnazzato in quella leggendaria notte fra il 2 e il 3 agosto del 390 a.C., i Galli Senoni avrebbero conquistato Roma e forse la splendida “Caput mundi” non sarebbe diventata la città capitolina, bensì la nostra Ostra senonia, dominatrice del mondo. Ci vuol poco, allora, a indovinare Brenno, il re dei Galli Senoni di allora, la cui capitale era a Senigallia ma che certamente aveva con sé anche i Galli Senoni di Ostra, che a 2400 anni esatti di distanza vendica l’amara sconfitta procuratagli dalle oche capitoline: “Maledette oche: mò ve te magno”, potrebbe dire ora. Ed è quello che faranno, in una sorta di nemesi storica, in tante migliaia di avventori miseni (eredi degli antichi Galli Senoni) alla “Festa dell’oca” alle Muracce, da stasera fino alla notte del 2 agosto prossimo,
anniversario del tentativo di scalata gallica al capidoglio romano. Vediamo come andò la storia 2400 anni fa.Il sacco di Roma del 390 a.C. da parte dei Galli Senoni guidati da Brenno è uno degli episodi più traumatici della storia di Roma, tanto da essere riportata negli annali con il nome di Clades Gallica, ossia sconfitta gallica. Ne danno testimonianza Polibio, Livio, Diodoro Siculo e Plutarco. Il tentativo romano di fermare i Galli a sole undici miglia da Roma, presso la confluenza nel Tevere del fiume Allia, oggi noto col nome di "Fosso della Bettina" situato al 18º chilometro della via Salaria, si risolse in una grave sconfitta delle truppe romane. Il giorno dell'amara sconfitta, il dies Alliensis (18 luglio), divenne sinonimo di sciagura e fu registrato nei calendari imperiali come dies nefastus (traducibile con giorno non lecito), quindi uno di quei giorni in cui non era consentito fare alcune cose come, ad esempio, seminare o partire per un viaggio. I superstiti, incalzati dai Galli, si ritirarono in ordine sparso entro le mura di Roma, dimenticando di chiuderne le porte, come riportato dallo storico Livio. Molto più probabilmente l'ingresso degli invasori nella città fu dovuto al crollo delle mura dopo un assedio da parte dei Galli. Questi, quindi, misero a ferro e fuoco l'intera città, ivi incluso l’archivio di stato, cosicché tutti gli avvenimenti antecedenti la battaglia risultano in gran parte leggendari e di difficile ricostruzione storica. L'irruzione dei Galli in Senato vide i senatori seduti composti sui propri scranni: vennero tutti barbaramente massacrati. I Romani rimanenti si rinchiusero quindi sul Campidoglio, un colle notevolmente fortificato, cosa che non impedì un ulteriore assedio. La leggenda narra che le oche sacre del tempio capitolino di Giunone avvisarono del tentativo di ingresso da parte dei Galli assedianti il console Marco Manlio, facendo così fallire il loro piano. Si venne così a un accordo tra i Romani, oramai allo stremo per la fame, e i Galli, colpiti da un'improvvisa epidemia. Quest'ultimi sarebbero ripartiti senza arrecare ulteriori distruzioni in cambio di un riscatto, pari a 1.000 libre d'oro puro, quasi tre quintali e mezzo. In questo contesto si sarebbero verificati i famosi episodi della bilancia truccata da parte dei Galli per ottenere più oro, con Brenno che fa pesare anche la sua spada in segno di spregio, urlando: “Vae victis!” ("Guai ai vinti!"), e del provvidenziale arrivo di Marco Furio Camillo, conquistatore di Veio che, al grido: “Non con l'oro si difende l'onore della patria, bensì col ferro delle armi!”, avrebbe fatto fuggire i Galli senza il bottino. Un'altra ipotesi dice che i Galli si ritirarono per fronteggiare degli attacchi dei Veneti, portando via il bottino di guerra. Roma era stata rasa praticamente al suolo e la Lega Latina era pressoché in frantumi: la fortuna per la città era stata di aver espugnato Veio qualche anno prima della calata dei Galli, altrimenti difficilmente sarebbe divenuta la futura "Caput Mundi". Ma il suo prestigio era momentaneamente compromesso e i Latini precedentemente soggiogati avevano rialzato la testa. Nei mesi successivi al saccheggio, la plebe chiese di trasferire la città nella Veio che, anche se distrutta dalla stessa Roma solo sei anni prima, doveva sicuramente apparire più sicura della loro città. La scelta di non modificare la collocazione dell'urbe si deve allo stesso Marco Furio Camillo. Ma Roma ne usciva con un’economia a pezzi e con le riserve auree depauperate. La plebe poteva ora imporre leggi a proprio vantaggio nei confronti dell’oligarchia senatoria, da sempre al potere. I sette colli furono circondati da una potente cinta muraria, che resistettero anche al tentativo di assedio da parte di Annibale nel 215 a.C., durante il corso della seconda guerra punica, e la fusione delle classi sociali dell'Urbe divenne nota coll'acronimo S.P.Q.R. Senatus PopolusQue Romanus. Per ottocento anni esatti la città di Roma non conoscerà altri saccheggi: soltanto due volte, durante il canto del cigno dell'impero, prima della sua definitiva caduta, verrà saccheggiata: il 24 agosto 410 d.C. dai Visigori di Alarico e il 28-31 maggio 455 d.C. dai Vandali di Genserico. Nel frattempo però Roma era stata per un millennio “Caput mundi”. Tutto per colpa delle oche. Se non ci fossero state loro, la “Caput mundi” avrebbe potuto essere Ostra senonia. E il celebre acronimo imperiale avrebbe potuto essere S.P.Q.O. Senatus PopolusQue Ostensis. Chissà chi sarebbe stato l’ultimo imperatore nostrano?
Alberto Fiorani |