Nella ricca regione etiope del West Gojam, al di sotto del lago Tsana e sulla riva destra dell’Abbay, sorge il villaggio di Dibo, ove nel 1791 nacque Ghebre Michele. Questo nome significa “servo o devoto di San Michele”. Ghebre Michele crebbe nella fede della sua patria, ove la Chiesa Copta Etiope negava la doppia natura umana e divina di Cristo. Da fanciullo una grave malattia lo privò dell’occhio sinistro, ma non gli impedì di impegnarsi nello studio: animato da fervido ingegno e ferrea volontà, destò ben presto l’ammirazione dei suoi compaesani, che erano soliti soprannominarlo “uomo dai quattr’occhi”. Ghebre Michele studiò nella città di Mertolé Mariàm e come gli altri studenti dell’Abissinia, era trattato quasi come figlio e servitore dei suoi maestri, abitando con loro, prestando servizio e vivendo una triste vita di stenti e privazioni. In assenza pressoché
totale di libri, era inoltre condannato a studiare tutto a memoria. Ghebre Michele così poté apprendere la grammatica, la poesia, il canto, il computo ecclesiastico e civile, nonché darsi allo studio del Salterio e della sua interpretazione, della Bibbia, della teologia e dell’astronomia. A venticinque anni terminò i suoi studi e l’amore per la scienza e la virtù indussero il giovane a cercare un ideale più perfetto di vita. Fece dunque richiesta di entrare nel monastero di Mertolé-Mariàm e vi fu ammesso. Abbracciata così la professione monastica. Si diede allo studiò di antichi codici conservati nei monasteri. Imbarcatisi per l’Egitto, Ghebre Michele e due altri suoi compagni vollero avere un parere da San Giustino De Jacobis che li accompagnava nel viaggio. Gli domandarono dunque “se in Gesù Cristo, dopo l’unione, restano due nature”. Alla risposta affermativa del celebre missionario cattolico, i tre obiettarono: “I nostri padri dicono che la natura non può stare senza la persona, né la persona senza la natura; per conseguenza, voi siete costretto ad ammettere due persone in Gesù Cristo”. Naturalmente Giustino non poté che replicare: “Se tale è il vostro insegnamento, come mai nella Trinità vi possono essere tre persone in una sola natura?”. Ghebre Michele ed i suoi compagni, non sapendo più come replicare, si defilarono in silenzio. Questi in seguito si recò con lui a Roma e a Gerusalemme, per poi far ritorno in Abissinia. Il virtuoso esempio di Giustino provocò in Ghebre Michele ammirazione e stima. In seguito ad alcune conversazioni con lui sulla Cristologia, dissipati così gli ultimi dubbi, si decise finalmente ad abiurare nelle mani del santo gli errori del suo paese. Fu presto associato all’attività apostolica del maestro, che gli diede addirittura l’incaricò di insegnante presso il suo seminario. Fu anche consigliere nella composizione di un catechismo adatto al popolo abissino e nella traduzione in lingua locale di un’opera atta alla formazione del clero indigeno. L’esperienza di Ghebre Michele si rivelò anche di grande aiuto nella predicazione ai fedeli e nella confutazione degli eretici. Questa intensa collaborazione fu però interrotta da una prigionia di settanta giorni, inflittagli dal vescovo eretico Salàma. Tornato finalmente in libertà, san Giustino lo giudicò degno di ricevere l’ordinazione presbiterale tra i figli spirituali di San Vincenzo. Non ancora iniziato il suo noviziato, ne fu impedito nuovamente da Salama, che lo consegnò nelle mani dell’imperatore. E mentre Giustino de Jacobis, dopo torture e prigionia, venne esiliato per sempre, il suo emulo Ghebre Michele, suppliziato, accecato, condannato ai ferri perpetui, sfuggì ai suoi persecutori con la morte, durante un'epidemia di colera, il 28 agosto 1855 all’età di soli 64 anni. Con il martirio mise così il suggello alla testimonianza da lui data alla Verità con la sua vita impregnata di fede e di santità. Riconosciuto l’esercizio delle virtù eroiche il 22 maggio 1926, Ghebre Michele poté essere solennemente beatificato in San Pietro il 3 ottobre successivo. Il nuovo Martyrologium Romanum lo ricorda così al 14 luglio: “A Cerecca-Ghebaba in Etiopia, ricordo del Beato Ghebre Michele, ovvero Servo Michele, presbitero della Congregazione per le Missioni e martire, che cercò sempre la vera fede nello studio e nella preghiera, e infine fece il suo ingresso nell'unità della Chiesa, per la qual cosa patì tredici mesi di carcere, di spossanti trasferimenti con le catene, di torture, fino alla morte per fame e per sete che coronò il suo martirio”.
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