Nacque all’incirca nel 1495 nel Montefeltro nei pressi del castello di Bascio nel Comune di Pennabilli (Pesaro), da Paolo e da Francesca Clavari della Castellaccia di Carpegna, umili contadini. In un manoscritto del convento veneziano di San Francesco della Vigna, si legge che Matteo era «di statura alta, di viso lungo e magro, di pochissimo riso, com’anco di poca allegrezza»; e un cronista cappuccino, che lo aveva conosciuto di persona nel 1543, affermò che «era più ruvido a maneggiarsi, anzi non punto sociabile e di proprio parere; e questo nasceva da un certo suo proprio e naturale che ’l piegava alla malinconia». Intorno al 1515, Matteo entrò tra i francescani osservanti nel convento di Montefiorentino, presso Frontino (PU), dove fu ordinato sacerdote nel 1525. S’impegnò da subito nell’evangelizzazione dei borghi del Montefeltro con una predicazione dal tono apocalittico e penitenziale che lo rese noto nella zona. In particolare riproponeva il rispetto
della regola francescana e frequentemente si lamentava per la sua mancata osservanza da parte dei confratelli del convento di Montefalcone Appennino, nei pressi di Fermo, dove si era trasferito. A causa della sua crescente insoddisfazione e irrequietezza, desideroso di ritornare al primitivo rigore francescano, nel gennaio 1525 decise di abbandonare il convento di residenza per recarsi a Roma e chiedere a Clemente VII il permesso di seguire l’esempio di san Francesco nella vita di povertà e nella predicazione itinerante, il privilegio personale di vestire un lungo saio di tessuto ruvido (come quello di Francesco d'Assisi, ma con un cappuccio più lungo ed appuntito), di osservare rigidamente la regola in assoluta povertà, di fare vita eremitica e predicare liberamente. Grazie alla nipote del papa, la duchessa di Camerino Caterina Cibo, ottenne da Clemente VII l’autorizzazione a condurre vita eremitica fuori dai conventi, seguendo la regola di san Francesco alla lettera, e a predicare senza fissa dimora con una nuova foggia di abito con il cappuccio aguzzo cucito alla tunica senza lunetta né scapolare. L’unico obbligo sarebbe stato quello di presentarsi ogni anno in occasione del capitolo davanti al ministro provinciale degli osservanti in segno di obbedienza. L’ultima settimana dell’aprile 1525 i francescani osservanti della provincia della Marca tennero il loro capitolo a Jesi e Matteo vi si recò per fare l’atto di sottomissione prescrittogli dal papa, ma fu arrestato come apostata per volontà del ministro provinciale Giovanni Pili da Fano e imprigionato nel convento di Forano. Liberato dal carcere per l’intervento di Caterina Cibo, riprese la sua predicazione itinerante e in estate si recò all’eremo di San Giacomo, nei pressi di Matelica, dove incontrò l’osservante Francesco da Cartoceto e il giovane terziario Pacifico da Fano, che chiedevano entrambi, come Matteo, il ritorno degli osservanti al rispetto della primitiva regola. Nell’autunno 1525 altri due frati osservanti, i fratelli Ludovico e Raffaele Tenaglia da Fossombrone, lasciarono l’Ordine e si unirono a Matteo, con il quale si rifugiarono a Cingoli, nell’eremo di Sant’Angelo di Monte Acuto, per dare vita a una casa di recollezione sotto la giurisdizione dei francescani conventuali. Nei mesi successivi altri confratelli li raggiunsero nell’eremo di proprietà comunale, secondo quanto attesta una delibera del Consiglio di Cingoli del 24 febbraio 1526, con cui la Comunità si impegnò all’unanimità a proteggere il piccolo gruppo di eremiti dalle molestie degli osservanti. Tuttavia l’8 marzo Clemente VII emanò un breve con cui ordinava ai fratelli Tenaglia e a Matteo, dichiarati apostati e scomunicati, di rientrare nell’Osservanza, anche con l’aiuto del braccio secolare. I tre si salvarono dal carcere conventuale con la fuga. Ludovico e Raffaele Tenaglia trovarono asilo e consiglio presso la Congregazione camaldolese degli eremiti di Monte Corona e furono ricevuti da Paolo Giustiniani, che li protesse dalle pretese del braccio secolare e dallo stesso ministro provinciale Giovanni da Fano, che avrebbe voluto ricondurli all’obbedienza. Ludovico, sul quale gravava ancora la scomunica, si diresse a Roma e presentò una supplica alla Penitenzieria apostolica. Il 18 maggio 1526, con l’appoggio di Caterina Cibo, ottenne un’autorizzazione della Penitenzieria a condurre insieme con il fratello e Matteo vita eremitica nella piena osservanza della regola francescana, dopo averne chiesto il permesso ai propri superiori. Potevano, inoltre, ricevere elemosine e impiegarle per il loro sostentamento. Infine, furono sottoposti alla giurisdizione del vescovo della diocesi in cui avrebbero scelto di dimorare. Nel frattempo Matteo si era separato dai due fratelli Tenaglia per rifugiarsi presso Cerreto d’Esi, dove, insieme con Paolo (Barbieri) da Chioggia, visse fino al 1528 nella chiesa di San Martino. Da una lettera dell’11 agosto 1582 di Vincenzo Lori, che riferiva testimonianze oculari dei contadini del luogo, si evince che Paolo da Chioggia «vi stesse più assiduo che fr. Matteo perché fr. Matteo era più vagabondo. E celebrarono la messa e predicorno in questo mio castello più volte». Secondo una tradizione riferita dai cronisti di San Severino sembra che Matteo dimorasse anche presso la chiesa di Santa Maria delle Vergini di quella città, nella via della Pinturetta. Comunque, dal 1527 Matteo e Paolo da Chioggia si distinsero per la loro attività di assistenza in favore degli appestati nel territorio di Fabriano. Nel febbraio 1528 Matteo si trovava certamente in quel Comune per assistere i malati: una delibera comunale lo autorizzava a servire un pasto agli affamati e, mentre il Consiglio discuteva se consentire questa adunanza pubblica per evitare ulteriori contagi. Grazie alla rinnovata protezione della duchessa Cibo e ai suoi buoni uffici con il pontefice regnante, il 3 luglio 1528 i fratelli Tenaglia ottennero con la bolla “Religionis zelus” il riconoscimento della nuova Congregazione dei frati eremiti minori di San Francesco, un nuovo ramo della famiglia francescana che fu sottoposto ai conventuali ed ebbe così origine l'Ordine dei Frati Minori Cappuccini. Matteo non era nominato nella bolla perché non ebbe mai l’intenzione di fondare una nuova famiglia religiosa, al contrario dei Tenaglia, che avevano subito l’influenza eremitica dei camaldolesi, tra i quali vanamente tentarono di essere accolti. Nel primo capitolo della nuova Congregazione, celebratosi nell'aprile del 1529 nella chiesa di Santa Maria dell'Acquarella di Albacina presso Fabriano nell’aprile 1529, Matteo fu eletto fra i quattro definitori generali e subito dopo fu scelto per acclamazione primo superiore generale, nonostante la sua riluttanza. Tuttavia, ritenendosi inadeguato alla carica, si dimise ben presto per riprendere la vita peripatetica. La sua fama di predicatore e di uomo integerrimo si diffuse sempre più nel Montefeltro, e in un altro atto ufficiale del 2 ottobre 1529 era definito «vir Dei devotissimus», in quanto aveva indotto le autorità di Fabriano a proibire il gioco delle carte e a promulgare una legge contro i fabbricanti delle medesime «ad placandam iram Dei». Rimase fra gli eremiti francescani fino al dicembre 1536 quando Matteo, che era sempre stato restio a inserirsi nella vita comunitaria, abbandonò l’Ordine per continuare la sua vita itinerante di predicatore penitenziale, recalcitrante a ogni modello di disciplina istituzionale. Matteo iniziò così un’incessante attività di predicazione parenetica con caratteri profetico-penitenziali in tutta la penisola, dal Montefeltro a Manfredonia, passando per Ferrara, Mantova, Roma e andando più volte a Venezia, dove certamente risiedette nel 1538 e nel 1542. Egli usava semplici frasi ritmate così che potessero essere facilmente comprese anche dagli illetterati, faceva cantare canzonette devote, «predicava il crocefisso» e concludeva gridando «All’inferno i peccatori», rifiutando ogni retribuzione. Una volta, a Città di Castello, alcuni giovani lo gettarono nel Tevere perché non avevano gradito i suoi rimproveri. Un testimone, nel corso di un’inchiesta sui presunti miracoli di Matteo, ricordò che egli si recò in Germania al seguito delle truppe imperiali, senza però indicare una data precisa. Ciò dovrebbe essere avvenuto nel biennio 1546-47, quando Matteo prestò assistenza spirituale alle truppe pontificie inviate in Germania da Paolo III sotto il comando di Ottavio Farnese contro i protestanti della Lega di Smalcalda. Colpito, verso la fine del luglio 1552, da una grave infermità mentre si trovava a Venezia, Matteo morì il 6 agosto 1552, mentre riposava in un angolo del campanile della chiesa di San Moisè, che gli era stato offerto dal parroco per trascorrervi la notte. Una vivida testimonianza dei toni apocalittici usati da Matteo è contenuta in un rarissimo opuscoletto di Montegiano da Pesaro, dato alle stampe nel 1552 all’indomani della sua morte. L’opera è una requisitoria dei vizi dominanti tra le diverse categorie di persone e professioni, minacciate di essere condannate all’inferno: le donne vanitose, gli ipocriti, gli ubriachi, i fannulloni, gli invidiosi, i potenti che spadroneggiano, gli avvocati, i notai e i procuratori, i medici e i mercanti, i ricchi contadini e i padroni sfruttatori, i coloni ingannatori, gli artigiani, i mugnai e i fornai, i sarti, gli osti e infine gli indifferenti e gli spensierati. Fu tumulato in una sepoltura comune, ma il 3 ottobre il suo corpo fu riesumato e trasferito nella chiesa degli Osservanti di San Francesco della Vigna, dove cominciò a essere visitato da numerosi fedeli che lo veneravano come un santo. Il 9 ottobre 1552 i francescani del luogo cominciarono un’inchiesta sui presunti miracoli avvenuti intorno al sepolcro. Ma l’opposizione del nunzio pontificio Ludovico Beccadelli e degli ambienti inquisitoriali romani pregiudicò il successo dell’operazione della canonizzazione, e la riforma cappuccina rimase senza un santo fondatore.
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