Nel giorno in cui la Chiesa commemora Tutti i Santi, ricorre la vicenda di Cesario, legata al romano colle Palatino. Quando la sede dell'Impero venne trasferita da Roma, il Palatino, prima abitato dall'imperatore e dalla sua famiglia, restò vacante. Col tempo il luogo divenne un importante centro religioso cristiano. Vi furono costruite almeno due chiese: una di esse, anziché essere dedicata a un martire romano come ci si potrebbe attendere, fu invece intitolata a Cesario, martire a Terracina, che godeva di certa celebrità nei secoli del Basso Impero e del primo Medioevo. La scelta forse si deve al nome: Cesario, infatti, deriva da Cesare, e Cesare era l'appellativo degli Imperatori romani. Il Palatino ospitava il palazzo dei Cesari, e nella tradizione pagana, i Cesari venivano deificati, diventando oggetto di pubblico culto. Ma il cristianesimo rivoluzionò tutto: Cesario, non Cesare; santo cristiano, non imperatore divinizzato, ma testimone di Cristo; non uomo diventato idolo, ma martire per la sua fede, a lui venne dedicata la chiesa sul Palatino. Cesario nacque nell’Africa settentrionale a Cartagine verso l’84 d.C., figlio di un mercenario e di una nobildonna, appartenenti alla “Gens Julia”, che decisero di chiamarlo Cesario per dimostrare la loro devozione all’imperatore Cesare. I suoi avi si erano stanziati a Cartagine durante la riorganizzazione dei territori africani
da parte di Giulio Cesare, che proprio in quella città aveva fondato una colonia romana in cui si erano trasferiti dei cittadini romani alleati con la madrepatria e quindi sotto il controllo di Roma. Il bimbo, essendo figlio unico, aveva diritto ad una vistosa eredità. La sua famiglia si convertì al cristianesimo per la fervente predicazione degli apostoli di Gesù nella zona. Il giovane Cesario, dopo aver compreso i contenuti della dottrina cristiana, rimase molto affascinato dalla figura di Gesù e dal suo messaggio di salvezza. Volendo diventare tutt’uno con Cristo, prese il voto del diaconato: il suo compito era quello di essere un servitore della Parola di Dio, della mensa dei poveri e quella eucaristica, ma soprattutto intendeva imperniare la sua opera sulla formazione di comunità cristiane nelle quali tutti dovevano dimorare nell’amore e nella libertà. Sorretto da questa fede, con grande meraviglia dei suoi genitori, rinunziò al suo patrimonio e si dedicò all’evangelizzazione. Superata l’adolescenza, Cesario decise di partire, con i suoi compagni, per la volta di Roma dove il cristianesimo era una religione illecita punibile con le massime pene. La nave tuttavia naufragò sulle coste di Terracina, una città situata nell'agro pontino, a causa dello scatenarsi minaccioso di temporali e fulmini. Il giorno successivo, allo spuntare dell’alba, tutti si misero in cammino per raggiungere velocemente Roma, percorrendo la via Appia, ma Cesario decise di rimare in questa città perchè attratto dalla bellezza del luogo ma soprattutto impressionato dal divario tra ricchi e poveri: i malati, gli oppressi e i moribondi erano lasciati ai margini della città mentre al suo interno la nobiltà viveva nel lusso più sfrenato. Decise di curare gli infermi, perché nel loro viso vedeva il ritratto di Dio, insieme a un prete di nome Giuliano, che poi divenne suo maestro e suo più grande amico: essi furono accolti nella comunità cristiana formata da Epafrodito che la tradizione vuole primo vescovo di Terracina. In quel periodo rifulse l’esempio coraggioso di Domitilla, nipote dell'imperatore Vespasiano, che convertita al cristianesimo dai suoi servitori Nereo ed Achilleo, decise di conservare lo stato virginale e di rifiutarsi di sacrificare agli dei ma queste azioni gli costarono il martirio: fu arsa viva nella sua casa di Terracina dove risiedeva con altre due vergini, Teodora ed Eufrosina. Cesario, il giorno successivo, si recò nella loro stanza e accertò la loro morte, ma rimase sbigottito in quanto le vergini erano in posizione genuflessa in segno di preghiera ed adorazione e i loro corpi non erano stati bruciati dal fuoco; fu aiutato da altri cristiani a prelevare le spoglie dando loro degna sepoltura. Quell’anno Marco Ulpio Nerva Traiano era imperatore romano, Leonzio console di Fondi e Lussurio primo cittadino di Terracina. Era consuetudine celebrare, il primo gennaio, una festa in onore di Apollo, in cui il giovane più bello della città doveva sacrificarsi per la salvezza dello Stato; in questo modo veniva immolato un uomo alla divinità per propiziarsene i favori e per invocare il suo sostegno. L’anno precedente era stato scelto un giovane di nome Luciano, il quale era trattato con ogni cura ed esaudito in tutti i suoi desideri per quasi 8 mesi, a spese dei devoti del popolo, solo se l’anno successivo si fosse ornato di magnifiche armi e condotto a cavallo su un monte, chiamato dai locali “Pisco Montano”, dal quale doveva gettarsi nel sottostante precipizio. Il cavallo, probabilmente, veniva marchiato con una lancia arroventata dal fuoco: quest’ultimo dal grandissimo dolore si precipitava dalla rupe facendo schiantare anche il ragazzo che veniva legato con lui. Arrivato il giorno stabilito per la cerimonia, Cesario vide il giovane Luciano che offriva in sacrificio una scrofa nel tempio di Apollo, circondato dalle autorità, dai sacerdoti pagani e dai presenti; successivamente iniziava la processione che si snodava per le vie principali della città per concludersi sul monte. Cesario e Giuliano decisero di seguire il corteo in quanto volevano assistere alle varie fasi della pratica idolatra e dopo aver chiesto alla folla cosa stesse succedendo e a sapere la storia della tradizione impartita dai loro antenati, entrambi corsero incessantemente per arrivare al tempio prima dell’inizio del rito, nella speranza di bloccare in tempo il sacrificio e di riuscire a salvare la vita del giovane. Arrivati sulla cima del monte, Cesario fece un discorso che cambiò per sempre la mentalità dei terracinesi: “Sventura ai principi e alla repubblica che si rallegrano delle sofferenze e si nutrono di sangue; la vita è sacra ed è una sola,non si può togliere né nel nome di un Dio, né dell’amore, dei soldi e della giustizia. Nessun uomo può uccidere ed uccidersi perché nessun dio dona la vita per chiederla, successivamente, in sacrificio a se stesso. Tutti gli esseri viventi, senza distinzione alcuna, meritano rispetto e dignità in quanto sono il riflesso dell’immagine del vero Dio sulla terra, il quale possiede un cuore di carne e non di marmo come la vostra statua di Apollo; il mio Dio ha orecchie per poter sentire il suo popolo che cerca protezione e libertà eterna”. Cesario venne bloccato dalle guardie di Terracina mentre Luciano si precipitò dalla rupe andandosi a schiantare sulle rocce per morire tra le onde del mare sottostante. Il suo corpo fu ripescato, lasciato in adorazione per un giorno intero e successivamente bruciato; le sue “ceneri” vennero conservate in un’urna e deposte nel grande tempio dedicato ad Apollo. Firmino, il pontefice incaricato al sacrificio umano, ordinò di incarcerare Cesario e di portarlo nella prigione cittadina nella quale venne introdotto insieme a Giuliano in una grande cella, gelida e inumana, dove vi erano malviventi e balordi che li picchiavano per il loro marchio di “Cristiani”. Cesario vide Cristo in quei malviventi: anche qui continuò la sua opera evangelica con i detenuti che chiesero di essere battezzati. Trascorsi otto giorni, il console Leonzio iniziò il processo: fece trasportare Cesario dalla prigione al Foro Emiliano, la pubblica piazza, per procedere al riconoscimento e all’interrogatorio in quanto era accusato di lesa maestà, vilipendio della religione di Stato e di aver interrotto una cerimonia sacra. Cesario, digiuno da circa 3 giorni, rispose di essere un umile servo di Gesù di Nazareth, un diacono peccatore e di non aver paura delle sue minacce per indurlo alla conversione e rinnegare la sua fede cristiana. Il console, per tutta risposta, decise di obbligarlo a sacrificare al dio Apollo: ordinò alle guardie di legarlo al suo cocchio per condurlo al tempio dove tutti aspettano con ansia il momento di abnegazione del suo Dio cristiano. Cesario si genuflesse, mormorò una preghiera e all’istante il tempio crollò, sotto le cui rovine morì Firmino. A seguito di ciò, il console decise, d’accordo con Lussurio, di far camminare Cesario nudo e carico di catene per le vie della città; in questo modo voleva vendicarsi della morte di Firmino, convinto che tutto fosse opera di magia. Trascorso un anno, Leonzio fece di nuovo condurre Cesario nel foro ma questa volta rimase molto affascinato dal nimbo di luce che lo avvolgeva: chiese quindi di convertirsi ad cristianesimo perché aveva dubitato dei loro falsi dei e voleva conoscere il Figlio di Dio che si era fatto uomo per compiere l'opera della redenzione umana. Dopo essere stato battezzato dal diacono Cesario e aver ricevuto i sacramenti dal presbitero Giuliano, il console Leonzio morì la stessa notte e fu sepolto nell’Agro Varano, fuori la città di Terracina. Prese il suo posto Lussurio, che fece torturare il giovane diacono per 13 giorni con ogni tipo di supplizio e il 1° novembre del 107 d.C. condannò Cesario e Giuliano alla pena dei “parricidi”: ai condannati vennero legati le mani e i piedi, introdotti in un sacco appesantito da pietre e furono gettati dall’alto della guglia di “Pisco Montano” nel mare di Terracina sulla costa del Lazio; così i due morirono per soffocamento. Recenti studi confermano la tradizione agiografica e iconografica: il Santo fu martirizzato quando era un giovane adulto con età compresa tra i 18 e i 22 anni. Prima di morire, Cesario predisse a Lussurio che il giorno successivo sarebbe stato morso da un serpente. Allora il primo cittadino, timoroso della profezia, si fece scortare dalle guardie ma mentre stava ritornando in una delle sue ville di Roma, dalla sua famiglia, da un albero si lanciò una vipera che con un morso alla gola gli penetrò fino al cuore iniettando il veleno nel suo corpo; il carnefice chiese perdono al martire e morì. Il cielo si aprì, le nuvole si vaporizzarono, la notte si celò per far brillare il sole e spuntò l’arcobaleno: gli angeli aprirono il sacco per coronare il Santo e Dio ricevette il Diacono Cesario in gloria “suo Servo e martire per la sua fede”. Le spoglie di san Cesario Diacono e Martire sono conservate, dal secolo XIII, nell'urna di basalto dell'altare maggiore della Basilica di SantaCroce in Gerusalemme di Roma. Nel 2009 monsignor Michelangelo Giannotti ritrovò parte considerevole delle ossa nella basilica di San Frediano di Lucca, dove erano state traslate. Anche a Montenovo, ora Ostra Vetere, venne dedicata a san Cesareo una chiesa con unico altare, edificata nel 1680 da don Cesareo dalla nobile famiglia Cesarei cui spettava il giuspatronato, dentro il castello e non lontano dalla Porta del Borgo Santa Croce verso Senigallia.
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