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Santo del giorno 30 Aprile Beato Benedetto da Urbino (Marco Passionei) sacerdote cappuccino PDF Stampa E-mail
Venerdì 30 Aprile 2021 00:00

Santo del giorno 30 Aprile Beato Benedetto da Urbino (Marco Passionei) sacerdote cappuccinoNacque il 23 settembre 1560 a Urbino (Pesaro), settimo degli undici figli che Domenico ebbe da Veronica Cibo, entrambi di nobili casati. Rimasto orfano dei genitori a sette anni, il beato fu condotto dai tutori nel palazzo che la sua famiglia possedeva a Cagli, dove ricevette con i fratelli i primi rudimenti delle lettere. A diciassette anni fu mandato a studiare preso l'università di Perugia e di Padova. A contatto di tanti giovani viziosi, il Passionei non si lasciò raffreddare nelle sue opere di pietà. Ogni mattina si recava in chiesa ad ascoltare la Messa e a fare spesso la comunione, e durante il giorno ripeteva di frequente gli atti di fede, di speranza e di carità per fronteggiare le insidie del demonio, del mondo e della carne. A ventidue anni il beato, laureato in filosofia e legge, per suggerimento dei familiari che sognavano per lui onori e dignità, si recò a prestare servizio, in Roma, al cardinale Gian Girolamo Albani. Avendo però capito che la corte non era luogo adatto alle sue aspirazioni, si ritirò ben presto nella casa paterna di Fossombrone dove maturò il proposito di farsi cappuccino. Fu ricevuto dal Provinciale delle Marche dopo molti rifiuti, perché fragile di costituzione, e mandato a fare il noviziato a Fano (Pesaro). Sotto la direzione del Padre Bonaventura da Sorrento fece mirabili progressi nella virtù ma, per le frequenti infermità di stomaco alle quali andava soggetto, i superiori decisero di rimandarlo in famiglia. Il beato ne pianse dal dolore, supplicò la Vergine Santissima di venire in suo aiuto, insistette presso il Ministro generale dell'Ordine e ottenne di fare la professione religiosa con il nome di Fra Benedetto, in virtù degli ottimi requisiti morali che presentava (1585). Quel giorno si spogliò dei beni in favore dei poveri e propose di percorrere risolutamente la via della perfezione. Fra Benedetto studiò teologia sotto la guida del Padre Girolamo da Castelferretti, che più tardi meritò di essere innalzato alla suprema dignità dell'Ordine. Dopo l'ordinazione sacerdotale, il beato fu approvato per il ministero della predicazione al quale si dedicò con grande zelo e semplicità di parole. In quel tempo l'eresia luterana faceva grandi danni alla Chiesa nelle regioni settentrionali d'Europa. Rodolfo II, imperatore d'Austria, e l'arcivescovo di Praga, Monsignor Berka, essendo venuti a conoscenza del gran bene che i Cappuccini operavano in altre nazioni, supplicarono Clemente VIII perché gliene inviasse alcuni ad arginare, con la predicazione, l'eresia. Il papa ordinò al Padre Girolamo da Castelferretti, Ministro generale dell'Ordine, d'inviare in Boemia, insieme con San Lorenzo da Brindisi (+ 1619), costituito commissario della spedizione, dodici frati per la missione tra gli ussiti e i luterani. Benedetto fu uno dei prescelti (1598), ma , dopo pochi anni di fatiche, dovette fare ritorno in patria a causa della malferma salute e delle difficoltà incontrate nell'apprendere la lingua del posto. Nella sua provincia egli attese ancora alla predicazione, si dedicò della gioventù, ma soprattutto mirò alla propria santificazione, in uno sforzo costante. Più volte fu eletto all'ufficio di Guardiano nei conventi di Cagli, Fano, Pesaro, Osimo e Fossombrone, e di definitore della provincia, tanto era grande l'amore che dimostrava per la regolare osservanza. I suoi confessori affermarono, con giuramento, di non avere trovato, nell'accusa delle sue mancanze, materia sufficiente di assoluzione. Nutriva difatti un odio implacabile per il peccato. Fra Benedetto fu sempre modello di vita cappuccina. Raramente usciva di cella, più raramente ancora dal convento. Per stare più unito a Dio parlava poco. Quando la regola prescriveva il silenzio diventata addirittura muto. Aborriva i discorsi vani e non tollerava che si dicesse male del prossimo. Di tutti soleva prendere le difese, ma specialmente degli assenti. Di sé aveva un concetto così basso che non capiva come facessero i confratelli a sopportarlo. Se gli accadeva di commettere qualche mancanza, ne chiedeva venia pubblicamente. Più volte fu visto entrare in refettorio con al collo i cocci di qualche vaso infranto involontariamente e farne la penitenza a somiglianza di un novizio. Nei suoi quarant'anni di vita religiosa accettò vestiti nuovi soltanto due volte. Preferiva indossare tuniche e mantelli già rifiutati da altri perché logori e rattoppati. Per scrivere le prediche e le lettere si serviva di qualsiasi ritaglio di carta o di buste che si faceva dare dai fratelli. Bastava che gli venisse il desiderio di una cosa perché Fra Benedetto stabilisse di astenersene. Benché travagliato dal male di stomaco, da dolori nefritici, da una piaga in una gamba, da un'ernia per cui dovette subire quindici volte il taglio del chirurgo, non si dispensò mai dalle penitenze e dai digiuni di regola. Non voleva che per lui fossero preparati cibi speciali. Faceva uso di un po' di vino soltanto in caso di malattia e per ubbidienza, mangiava una sola volta al giorno durante le novene della Santissima Vergine, tutti i venerdì e i sabati e le vigilie dei santi suoi protettori. A chi lo esortava a nutrirsi di più e meglio rispondeva che "poco bastava alla necessità, e nulla alla sensualità". Ogni giorno soleva flagellarsi aspramente per lo spazio di mezz'ora. Indossava di giorno e di notte un cilicio di crine. Nei giorni più solenni macerava il proprio corpo con una lamina di ferro cosparsa di centinaia di punte di chiodi. Dormiva poco, disteso sopra un tavolaccio. A chi lo esortava ad usare riguardi rispondeva "che temeva piuttosto di dovere essere rimproverato per le molte soddisfazioni che accordava al suo corpo". E soggiungeva: "E necessario che io mi affretti a mettere in serbo qualche cosa per l'eternità perché vedo che gli anni trascorrono assai veloci senza che possa dire di avere acquistato meriti per il Paradiso". Niente lo tratteneva dall'alzarsi a mezzanotte per il canto del Mattutino: non le frequenti infermità, non il trovarsi fuori convento, non la stanchezza del viaggio, non la dispensa dei superiori. Non c'era pericolo che entrasse o uscisse di chiesa senza avere prima baciato la terra. Diceva l'ufficio divino sempre in piedi ed anche d'inverno a capo scoperto. Dopo il mattutino ritornava inosservato in chiesa dove rimaneva per lunghe ore genuflesso davanti al Santissimo Sacramento. Altre volte distendeva le braccia in forma di croce e restava in quella scomoda posizione a lungo meditando la Passione del Signore. Conscio della propria miseria e incapacità di fare il bene, spesso si gettava bocconi per terra e adorava il Signore e lo propiziava. Talora gli sgorgavano dagli occhi lacrime talmente abbondanti da bagnare il pavimento. Ogni giorno recitava il rosario, l'Ufficio della Beata Vergine, l'Ufficio dei morti, l'Ufficio dello Spirito Santo e della Croce, i sette salmi penitenziali, la corona della Passione e altre preghiere ai santi suoi protettori. Sette volte al giorno visitava il Santissimo Sacramento, Maria Santissima e la croce che i cappuccini avevano posto in una cappella all'estremità della clausura. Oggetto ordinario delle sue meditazioni erano i dolori del Figlio di Dio. Ne sentiva una così viva attrattiva che ascoltava il maggior numero possibile di Messe. Alla celebrazione della propria, si preparava flagellandosi aspramente, facendo una lunga meditazione e profondi atti di umiltà. Quando si accorgeva che taluno si comunicava sovente, gli mostrava un affetto tutto speciale. Diceva che non riusciva a capire come tutto il mondo non amasse il Signore. E sospirava: "Gli uomini non lo amano perché non lo conoscono". Egli non passava mai davanti al tabernacolo senza prostrarsi bocconi per terra, baciare il pavimento, pronunciare devote giaculatorie o ripetere ininterrottamente: "Ti amo, ti amo, ti amo!". Il Signore volle provare la fedeltà del suo servo privandolo sovente delle consolazioni spirituali. Benché oppresso da desolazioni e da aridità. Fra Benedetto non venne meno mai ai suoi esercizi di devozione. Ovunque fu guardiano, il popolo non soleva chiamarlo con altro nome che quello di "santo". Costituito in tale dignità, gli sembrava che i doveri dei sudditi fossero diventati i suoi doveri. Non si vergognava perciò di aiutare il sagrestano nell'ornare la chiesa, il cuoco nel lavare le stoviglie, i novizi nello scopare i dormitori, i frati cercatori nel questuare il cibo necessario alla comunità. In Cagli fu visto mendicare da un amico il quale cercò di dissuaderlo dal compiere quell'ufficio così poco conforme alla dignità del Guardiano. Il beato si limitò a dirgli che riteneva cosa migliore "portare il peso del pane che quello del peccato". In diversi luoghi egli si adoperò perché la chiesa fosse ingrandita. Per pagarne le spese non esitò a chiedere l'elemosina di porta in porta. Non stupisce che i conventi nei quali fu Guardiano emergessero tra gli altri per l'osservanza religiosa e l'interna concordia. Se un confratello cadeva in qualche difetto, egli lo ammoniva con benignità ed esigeva che ne facesse penitenza. Se il suddito si rifiutava o ne mostrava rincrescimento, soddisfaceva lui per il renitente. Anche quando fu eletto definitore della provincia non venne a patti con la rilassatezza. Appena sapeva che in un convento si andava introducendo qualche abuso scriveva subito lettere, esortava, minacciava e non si dava pace finché non sapeva che era stato tolto. Fra Benedetto usciva di convento d'ordinario soltanto per andare a questuare o predicare. Non partiva se non dopo avere chiesto davanti a tutta la comunità perdono della proprie mancanze, avere ottenuto la benedizione del superiore e fatto una breve visita al Santissimo Sacramento. Viaggiava sempre a piedi a costo di cadere sfinito ai margini della strada sassosa e polverosa a causa delle infermità e della stanchezza. Nel paese che era la meta delle sue fatiche apostoliche, preferiva alloggiare presso le famiglie più povere. Nella stanza, che gli serviva da cella, conduceva una vita in tutto simile a quella che i confratelli conducevano nel convento. A mezzanotte non lasciava di alzarsi dal letto per recitare il mattutino. Alle grandi città preferiva i paesi più oscuri. Si procacciò così il nome di "apostolo dei poveri". Fra Benedetto predicava in maniera da essere inteso da tutti e flagellava i vizi senza rispetto umano. Faceva speciali orazioni per i peccatori ostinati. Il suo confessionale era assiepato di continuo da penitenti tanto che non si riusciva a capire come facesse a sostenere tante fatiche e ad essere fedele alle pratiche di pietà. Avendo avuto da Dio il dono dei miracoli, guariva i malati col segno della croce, al tocco della mano, impartendo loro la benedizione con il reliquiario che portava sempre con sé. Era industriosissimo nel tenere nascosti i carismi ricevuto da Dio. Quando qualche malato andava a esprimergli la sua riconoscenza per la guarigione ottenuta, egli ne attribuiva il merito ad altri o faceva finta di non capire. Dio gli aveva pure concesso di conoscere, alla vista e all'odorato, chi era casto e chi no perché lo inducesse a pentimento. Oltre che dei malati, Fra Benedetto aveva una cura particolare anche dei poveri. Voleva che ad essi fosse sempre fatta l'elemosina. Durante la predicazione ingiungeva al suo compagno di non lasciarne partire alcuno senza avergli dato "se non altro qualche noce". Quando non poteva soccorrerli, li mandava dai suoi fratelli con una lettere di raccomandazione. Non stupisce perciò che, nel lasciare il paese in cui aveva tenuto la missione, la gente gli facesse ressa attorno per baciargli la veste o le mani, per raccomandarsi alle sue preghiere e ricevere la benedizione. L'ultima volta che ricevette l'ordine di andare a predicare la quaresima a Sassocorvaro (Pesaro) dimorava nel convento di Cagli. Per strada fu prostrato dal flusso di sangue che soffriva da alcuni anni. Cominciò la predicazione, ma la dovette interrompere. Fu trasportato da dodici uomini, sopra un sedia, prima nel convento di Urbino e poi in quello di Fossombrone dove morì il 30 aprile 1625 dopo essere stato confortato dall'apparizione di San Filippo Neri, di cui era sempre stato devoto. Dal suo corpo si sprigionò un soave profumo di gigli e viole. I fedeli accorsero in massa a dargli l'estremo saluto. Era tanta 1a venerazione che avevano di lui che giunsero al punto di tagliuzzare persino i calli che aveva ai piedi pur di averne una reliquia. Pio IX beatificò Fra Benedetto da Urbino il 15 gennaio 1867. I suoi resti mortali sono conservati nel convento di Monte Sacro. Il beato scrisse alcuni opuscoli ascetici, inni, sonetti e lettere varie che si conservano nella biblioteca Passionei di Fossombrone.

estratto da: http://www.santiebeati.it

da Centro Cultura Popolare