La storia, si dice, è maestra di vita. Ora c’è da domandarsi se davvero la storia ci abbia insegnato niente. C’era una volta, cent’anni fa, il Belpaese felice di aver vinto la guerra, la Grande Guerra. Piangeva i morti, ma guardava al futuro. Nero. La crisi economica del primo dopoguerra, l'inflazione della moneta; l'aumento delle tasse e dei prezzi; la disoccupazione diffusa, la smobilitazione dell'esercito (che
restituì alla vita civile milioni di persone), i conflitti sociali e gli scioperi nelle fabbriche del nord, l'avanzata del partito socialista divenuto il primo partito alle elezioni del 1919, crearono nel triennio 1919-1922 le condizioni per un grave indebolimento delle strutture statali e per un crescente timore da parte dei ceti agrari e industriali di una rivoluzione comunista in Italia sul modello della “rivoluzione d'ottobre” verificatasi nell'impero russo nel 1917, guidata dai “bolscevici”. Non si sapeva come collocare i soldati tornati dal fronte, come sfamare i disoccupati, come imbarcare gli emigranti. E c’era un sistema politico bipolare: i liberali padroni da una parte e i socialisti rivoluzionari dall’altra. E in mezzo c’erano le lotte sociali, il “biennio rosso”, gli scioperi e le manifestazioni di piazza, le squadracce che terrorizzavano la popolazione, devastando, incendiando, bastonando. Bisognava fare qualcosa, borbottava il re imbelle. Dopo i liberali, bisognava affidare il governo agli altri, ai socialisti. C’era allora bell’e nuovo, un giovane socialista che aveva fatto un partito nuovo, con un programma nuovo, che voleva una nuova Italia, anche se aveva pochi parlamentari. Perfetto, era quello che ci voleva, pensava il re. Un giovane ambizioso, pragmatico, deciso, e tuttavia con scarso seguito parlamentare: perfetto, proprio perfetto, così non avrebbe potuto fare molto. Così pensava il re imbelle. E così gli affidò l’Italia. Per farla subito nuova (“Adesso”, verrebbe da dire) quel giovane promettente aveva bell’e pronto un programma politico nuovo, di zecca: abolire il Senato, fare una nuova legge elettorale maggioritaria che più non si poteva (bastava il solo 25% dei voti per avere i due terzi dei parlamentari, poi cosiddetta “legge Acerbo”), riformare l’economia, dare sicurezza allo Stato e agli italiani, anzi, agli Italiani, con la I maiuscola. Benito Mussolini, ex dirigente del Partito Socialista Italiano e convertito alle idee del nazionalismo, riuscì a fondere il confuso miscuglio di idee, aspirazioni, frustrazioni degli ex combattenti reduci della prima guerra mondiale, in un movimento politico che all'inizio ebbe una chiara ispirazione socialista e rivoluzionaria e che subito si contraddistinse per i metodi sbrigativi impiegati contro gli oppositori. In questo clima nacque il fascismo, ufficialmente il 23 marzo 1919 a Milano. Pare la fotocopia di quello che sta accadendo oggi. Stessa crisi economica, stessa moneta debole, stesse tensioni sociali, stesse soluzioni “sbrigative”. Non più legge “Acerbo”, ma legge “Italicum”. Non più Mussolini (che fece una brutta fine, dopo averla fatta fare ancora più brutta all’Italia e agli Italiani, ormai ridotti ad essere italiani, con la i minuscola). Speriamo solo di non fare la stessa fine di allora. Ma se la storia è maestra di vita …
da montenovonostro |