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Home Comunità montenovonostro Dall’Italia: Ma che ci importa a noi dell’articolo 18?
Dall’Italia: Ma che ci importa a noi dell’articolo 18? PDF Stampa E-mail
Giovedì 12 Gennaio 2017 16:17

Dall Italia Ma che ci importa a noi dell articolo 18?Ci importa, ci importa, eccome. E per due distinte e distanti ragioni. La prima è nel merito, diciamo così, “sindacale”. La seconda è nel merito “politico”. Ma facciamo un po’ di chiarezza. Con decisione di ieri, un pronunciamento della Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il primo dei tre quesiti proposti dalla CGIL. Il sindacato di sinistra, da sempre “cinghia di trasmissione” del vecchio PCI, non “ingrana” più con il nuovo PD, quel partito che una parte dei suoi iscritti ed elettori continua ancora a considerare erede del vecchio PCI, senza esserlo più ormai da tempo. E infatti pratica ormai, soprattutto dopo il “travolgente” avvento dell’ex “comandotuttoio”, ex capo del governo, forse ex capo del partito e chissà se ancora capo di chissà cos’altro, Matteo Renzi. Spinto dall’ex capo dello Stato (ma quanti “capi” annovera ormai l’ex partito della sinistra?), quel Giorgio Napolitano mai sazio si “cambiamenti”, il giovane “pulzello” fiorentino ne ha combinate parecchie di “deforme”, fino a “deformare”, delegittimandolo, tutto il castello di tutele e difese giuridiche dei lavoratori che il vecchio PCI aveva decisamente sostenuto e voluto nei decenni passati. Infatti, oltre a tante altre “deforme”, aveva varato anche la “deforma” dell’articolo 18. Che cos’è? E’ un articolo della legge 20 maggio 1970, n. 300, meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori” che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro, in applicazione della cosiddetta tutela reale con risarcimento e l'indennità in sostituzione della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo (ovvero effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio) di un lavoratore. Una norma importante, che metteva al riparo i lavoratori da ingiuste discriminazioni padronali. Una tutela efficace, tutta tesa a garantire i lavoratori e a ridurre il potere discrezionale dei datori di lavoro. Per questo motivo, dall'inizio degli anni 2000, vari partiti hanno tentato a più riprese di riformarlo. I sindacati si sono sempre opposti con decisione, temendo un allentamento della tutela dei lavoratori. Ma la norma ha subìto tuttavia consistenti modificazioni nel 2012 con la riforma del lavoro “Fornero” durante il governo Monti, prima, e poi con il cosiddetto “Jobs Act” (ma perché il PD deve sempre parlare straniero per non farsi capire dagli italiani?) ad opera del governo Renzi, poi. E infatti tutti i padroni, la Confindustria e le altre associazioni di categoria “padronali” hanno plaudito al governo Renzi, sostenendolo sfacciatamente durante il referendum della “deforma” costituzionale. Poteva prenderla bene il sindacato CGIL, ex “cinghia di trasmissione” del vecchio PCI e che vede ormai come fumo negli occhi il nuovo PD che si vanta del nome di “democratico”, mentre è invece tutt’altra cosa? Al massimo, anziché “democratico”, è diventato solo “deformatico”. E infatti la CGIL non è stata al gioco renziano e ha promosso un referendum contro l’abolizione dell’articolo 18, contro le degenerazioni dei cosiddetti “voucher” (ma perché il PD deve sempre parlare straniero per non farsi capire dagli italiani?) che precarizza l’occupazione con l’uso sconsiderato della “remunerazione a tempo determinato” anziché stabilizzare l’occupazione “a tempo indeterminato”. Una sorta di “caporalato” istituzionalizzato. E dopo le lunghe lotte della sinistra contro il “caporalato”, di certo il sindacato di sinistra non poteva tacere. Così ha raccolto ben tre milioni e trecentomila firme a sostegno della richiesta di referendum contro i pastrocchi giuridici e lessicali di “Jobs Act”, dei “Vaoucher” (ma perché il PD deve sempre parlare straniero per non farsi capire dagli italiani?) e le limitazioni sulla responsabilità in solido di appaltatore e appaltante negli appalti, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore. Adesso la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il primo dei tre quesiti proposti, quello sull’articolo 18, per cui la CGIL sta valutando il ricorso alla Corte Europea, mentre il governo promette di modificare la normativa sui “voucher” (ma perché il PD deve sempre parlare straniero per non farsi capire dagli italiani?). Vedremo come andrà a finire. E fin qui abbiamo lungamente trattato solo della prima ragione, nel merito, diciamo così, “sindacale”. Adesso affrontiamo la seconda, nel merito “politico”. Che razza di politica del lavoro sta praticando il PD? Sta facendo l’esatto contrario di una politica di sinistra. E infatti ottiene l’entusiastico sostegno della Confindustria, malamente guidata da nuovi vertici tutti sbilanciati a sostegno di Renzi, nonostante i rimproveri (pensate un po’ di chi) dell’ex amministratore delegato della Fiat Cesare Romiti, che era ben più accorto di quanto non lo sia il “nuovo” Marchionne filo-renziano. Peccato. Con il referendum sull’articolo 18, se fosse stato ammesso dalla Corte Costituzionale, si sarebbe aperta nel paese una grande e salutare discussione sulla natura e sulla funzione delle politiche del lavoro: abbassare le tutele, ridurre i diritti di chi lavora serve davvero a incrementare occupazione e competitività? Impedire ai cittadini di pronunciarsi nel merito di singole questioni delle politiche del lavoro, e poi alzare vani allarmi sulla crescita dell’astensionismo elettorale e sulla abissale distanza tra politica e cittadini, consiste in un puro atto di autolesionismo. Così si alimenta solo il disgusto per la politica, invece che cercare di contrastare l’antipolitica con risposte razionali. Si è persa purtroppo l’occasione e in tutta questa vicenda il PD “partito deformatico” sta semplicemente sbagliando tutto, se continua a dire ”Ma che ci importa a noi dell’articolo 18?”.

 

da montenovonostro

 

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