Ho conosciuto l’Onorevole Giovanni Bianchi, di cui oggi cade il trigesimo della scomparsa, solo nell’aprile del 2016, quando venni insignito della carica di Consigliere Nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani, Anpc, di cui era, ed stato sino alla morte, Presidente Nazionale. Una esperienza temporalmente limitata rispetto alla sua lunghissima attività politica, nell’ambito delle Acli, prima, del Partito Popolare Italiano, di cui fu tra i fondatori, poi, fortemente
caratterizzante e degna, proprio per l’approccio di cattolicesimo liberale e mai integralista, di venire ricordata ed additata ad esempio in tempi in cui la moderazione dei toni e delle posizioni è cosa rara nel prevalere del radicalismo ideologico, spesso ottuso se non fuori dalla realtà e dal razionale. Il primo approccio con la sua personalità eclettica, culturalmente preparata ma scevra da radicalismi o solo da ruvidezze che magari avrebbero innescato qualche polemica, dando peraltro visibilità alla nostra sigla – cosa che a mio avviso non avrebbe guastato – in Consiglio Nazionale Anpc. Sempre lucide e razionali le sue analisi, sempre pacate, ma puntuali, le sue proposte, capaci di frenare persino la combattiva vis polemica di chi scrive, che, forse per l’impegno quotidiano in campi diversi dove è vincente l’approccio scientifico galileiano, tende a forzare la ruvidezza delle sue posizioni per provocare una decisa contrapposizione ed un confronto da posizioni in cui si sente forte, n quanto ritenute galileianamente incontestabili. In politica, invece, esistono opinioni, non “verità” scientifiche inoppugnabili. Il capolavoro di equilibrio politico del Presidente Bianchi si è avuto in occasione delle vicende referendarie dove sarebbe stato fin troppo facile sfruttare improvvide e false categorie introdotte maldestramente dagli attori governativi che si sforzavano di allargare il consenso sulle loro proposte. Partigiani lo siamo, almeno continuatori della Memoria e della tradizione anche se, come quelli della mia generazione, per motivi anagrafici non combattenti sul campo, saremmo comunque potuti diventare gli unici “veri”, quelli invocati da Maria Elena Boschi, venendo meno però a quella unità di Valori e di Voleri che caratterizzò l’anima popolare della Resistenza e della Guerra di Liberazione. Questa era, se non altro, la visione e la prassi dei Partigiani Cristiani. Sarebbe bastato un semplice pubblico invito per scatenare il pandemonio mediatico e dare alla nostra sigla visibilità (ma venne solo inviato via email ai Soci e pubblicato sul sito un corposo documento in cui si riportavano in maniera comparata i testi che sarebbero stati vincolanti in caso di vittoria del si, o di quella del no), però a scapito dell’unicità dell’eredità della Memoria e dei Valori della ribellione al regime, patrimonio imprescindibile nonostante le plurime anime, persino su taluni punti inconciliabili tra loro, che caratterizzarono l’epopea ed ancor più il dopoguerra, di cui è simbolo emblematico il Venerabile Teresio Olivelli, testimone coerente dei Valori cristiani in tutte le sue esperienze di vita, sino alla morte in campo di concentramento a seguito della sua scelta di “ribelle per amore”, in queste settimane riconosciuta, con grande risonanza mediatica (https://anpcnazionale.com/2017/06/18/teresio-olivelli-riconosciuto-il-suo-martirio/), come “martirio” da Papa Francesco I. Un riconoscimento che fa pensare ad una ormai prossima canonizzazione. Giovanni Bianchi fu sempre fedele e coerente con questa filosofia culturale e di vita. Scrive al riguardo (https://anpcnazionale.com/2017/07/24/e-venuto-a-mancare-il-presidente-giovanni-bianchi/) nel ricordarlo sul sito del Sodalizio Maurizio Gentilini, Segretario Generale di Anpc: «Attento studioso e interprete originale, in grado di attualizzare il pensiero e il lascito morale dei grandi padri del cattolicesimo democratico (da Sturzo, a De Gasperi a Dossetti), aveva dedicato i suoi ultimi anni allo studio e alla divulgazione delle vicende del movimento resistenziale e delle radici della Costituzione repubblicana. Particolarmente significativo il titolo del suo ultimo libro (https://anpcnazionale.com/2017/06/10/resistenza-senza-fucile-un-nuovo-libro-da-non-perdere/) “Partigiani senza fucile. La Resistenza quotidiana”: una lettura che – lontana da ogni retorica e da facili revisionismi – individua e legge quell’esperienza come lotta di popolo ed esperienza collettiva, pur tra mille contraddizioni e tanti steccati ideologici. Quella lotta non fu l’epopea di una élite combattente, ma frutto di un sentire diffuso, a cui il cattolicesimo democratico partecipò in maniera determinante, con contributi di pensiero e di azione molto diversi tra loro, ma sempre sinceri e fecondi. Ed è così che bisogna raccontarla oggi». A questo vorrei aggiungere una nota di personale esperienza. L’enfasi posta da Giovanni Bianchi sul contributo delle donne, che, soprattutto nel Nord industriale, si trovarono con uno stressante sovra carico di oneri, oltre quello tradizionale di mogli e di madri, anche quello del duro pesante lavoro in fabbrica per sostituire gli uomini alle armi. Le molteplici forme della resistenza civile delle donne nel periodo 1943 – 1945, a causa del contesto bellico che aveva loro imposto di sostituire gli uomini nei ruoli, spesso pesanti, allora prettamente maschili, portarono la componente femminile ad assumersi responsabilità civili sino ad allora a loro precluse ed a rendersi protagoniste di iniziative e di attività che sotto il profilo della dottrina militare potrebbero definirsi di tipo logistico, di supporto attivo con esposizione, alla stregua dei combattenti, a rischio e pericolo di pesanti ritorsioni, dal carcere, alla deportazione, sino alla pena di morte. Questo impegno non era semplice esercizio di opere caritatevoli, ma comportava appunto una organizzazione logistica (logistica è un termine militare) di supporto, strutturata ed organizzata, una attività illegale che esponeva a grave rischio personale ed a quello della distruzione o confisca dei propri beni; era quindi un vero e proprio impegno militare, anche se spesso non in armi, sia pure con la consapevolezza che questo potesse preludere all’evenienza di imbracciare un fucile e diventare resistente combattente in armi, con tutte le conseguenze del caso, anche quelle interiori di natura etica e morali per chi considerava in assoluto sacra la vita umana, compresa quella del nemico per quanto crudele esso fosse. Il contributo delle donne alla Resistenza, per pregiudizi culturali nel dopoguerra non venne adeguatamente riconosciuto persino in ambito della sinistra marxista che pure sbandierava una politica di emancipazione spinta; il mettere in risalto questo aspetto è stata una costante del Presidente Bianchi con puntuali richiami sia in Consiglio Nazionale, che con l’inserimento di finalizzate relazioni ai Convegni storici di Torino e di Milano svoltisi lo scorso autunno, ai quali ho partecipato apprendendo moltissimo. Le donne, che surrogavano i ruoli maschili nelle fabbriche senza abdicare a quelli altrettanto pesanti per loro tradizionali, si trovarono così in prima linea a rivendicare diritti civili e sindacali, ancora prima del 25 Luglio 1943 e la destituzione di Mussolini, che in realtà fu propiziata dallo stesso partito fascista che si illudeva di potere sopravvivere a se stesso scaricando tutte le colpe su un unico capo espiatorio, il “duce”, al quale il monarca aveva delegato ogni responsabilità civile e militare della conduzione della guerra, il quale (il re) ora veniva invitato a ritirare e nuovamente avocare a se quella delega a seguito dell’approvazione dell’Ordine del Giorno Grandi, che ne faceva, al contrario delle altre omologhe mozioni, espressa e puntuale richiesta. La crisi del regime, pertanto, fu innescata proprio dal crollo del fronte interno a causa delle condizioni di vita dovute direttamente alla guerra, indirettamente ad essa come l’aumento del costo dei generi di prima necessità e una inflazione galoppante che erodeva i salari. Quella che oggi è “banale” esercizio di attività sindacali di tutela all’epoca era azione che esponeva a pericolo gravissimo. E nel milanese le donne furono protagoniste in prima linea. Le agitazioni iniziarono intorno le 13,30 del 22 marzo 1943 nel reparto bulloneria della Falk Concordia e tra il 25 e 30 marzo si estesero prima alle aziende dell’hinterland, poi alle grandi fabbriche milanesi. Le donne furono protagoniste, determinate ed in prima linea. Al Cotonificio Dell'Acqua di Legnano intervenne Tullio Cianetti, sottosegretario del Ministero delle corporazioni che venne preso a sassate dopo aver minacciato le operaie, mentre alla Borletti le operaie della spoletteria zittirono Eduardo Malusardi gerarca del sindacato fascista milanese che era intervenuto con tre camion di poliziotti per sedare le scioperanti. Fecero seguito arresti, processi e deportazioni. Ancora più massiccia la partecipazione agli scioperi del 1944 nel triangolo industriale che registrarono una adesione dal 50% al 100%, nonostante le gravi minacce di ritorsione e di rappresaglia. Hitler tramite il suo ambasciatore presso la Repubblica Sociale Italiana chiese che venissero deportate in Germania 70.000 persone, pari al 20% degli aderenti agli scioperi. In realtà poi le deportazioni furono solo di 1.200, mentre decine di migliaia di persone in numero ben superiore ai 70.000, uomini e donne, passarono nelle fila della Resistenza. La situazione del fronte interno cominciava per il regime a divenire preoccupante e questo dava spazio di manovra alle opposizioni politiche, compresa la nostra di matrice cristiana, sino allora represse; anche la parte movimentista del fascismo, quella più sociale e meno legata al potere cominciava a scalpitare. Il malessere veniva avvertito e persino recepito nell’ambito dello stesso sindacalismo fascista, che da questo punto di vista diveniva una minaccia forse più subdola per quella oligarchia che del fascismo si era servita per operare un regresso istituzionale nel Paese. Per chi volesse approfondire questo aspetto richiamiamo al resoconto stenografico della Relazione dell’esponente di spicco del regime e sindacalista fascista Giuseppe Landi, che descrive la situazione nell’ottica di un dirigente del regime, quindi quanto mai attendibile nel porre in risalto quegli elementi di malessere che stavano erodendo il fronte interno ed ingeneravano malcontento e ribellione. Proprio a seguito di questo costante richiamo del Presidente Giovanni Bianchi a rivalutare il non sufficientemente noto contributo delle donne quali le Partigiane Cristiane, comprese le religiose come quelle in servizio alle carceri “Le Nuove” di Torino, il Gruppo Medagliere, che con me Delegato ha sfilato nella Parata Militare del 2 Giugno 2016 e 2017, ha avuto come Alfiere due donne, la giornalista Daniela Binello, figlia di un partigiano piemontese nella sfilata del 2 Giugno 2016, la professoressa Anna Rolli, esperta di geopolitica, autrice di pubblicazioni universitarie e giornalista pubblicista, in quella del 2 Giugno 2017. Due donne di valore che riaffermano insieme alla Vicepresidente Nazionale Anpc Cristina Olini, figlia di un partigiano ligure, il compianto giornalista Bruno, la continuità di Memoria e di Valori in campo civile cristiano sul ruolo della donna, che ha richiesto ed ancora oggi spesso richiede maggiore sacrificio dell’omologo dell’uomo. Giorgio Prinzi Consigliere Nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani.
da ANPC Nazionale |